lunedì 25 dicembre 2017
domenica 17 dicembre 2017
Il ritorno del Re. S.M. Vittorio Emanuele III e la sua sposa Elena finalmente in Italia
I Tradizionalpopolari esprimo la loro gratitudine al sign. Presidente della Repubblica Italiana, On. Sergio Mattarella, per avere permesso il rientro in patria delle spoglie mortali del Re Soldato, Vittorio Emanuele III Re d'Italia e della Regina Elena sua sposa. E' una giornata storica per la nostra nazione, un momento di pacificazione e di riappropriazione della propria storia. Noi avevamo aderito all'appello di S.A.R. la principessa Gabriella di Savoia che chiedeva il ritorno delle salme dei reali d'Italia ed oggi tutto ciò è stato reso possibile. Anche se sarebbe stata forse più opportuna una sepoltura al Pantheon di Roma, comunque oggi è un giorno di festa e riteniamo un fatto positivo che le salme dei sovrani Elena e Vittorio Emanuele siano ritornate nella loro sede naturale il suolo italiano.
mercoledì 6 dicembre 2017
La Rivoluzione d’Ottobre, il Comunismo come pura attuazione del pensiero di Marx. Testo integrale dell’intervento di Tommaso Romano svolto all'hotel Federico II per il Rotary Palermo Nord e il Rotary Baia dei Fenici sul tema "Il destino di una rivoluzione: Ottobre Rosso", il 28 Novembre 2017. Correlatori: Pasquale Hamel, Aurelio Pes e la Presidente del Club Palermo Nord Anna Maria Corradini.
I cento anni della presa del potere in Russia di Lenin, la
fine dello zarismo e l'uccisione di Nicola II e della famiglia imperiale, la
misconosciuta e taciuta resistenza dei "Bianchi" all’Armata Rossa
fino al 1922, lo stalinismo e i gulag,l'assassinio di Lev Trockij da parte dei
sicari di Stalin i fatti del 1956 e del 1968 (con le repressioni violente di
Ungheria e Cecoslovacchia), la guerra fredda e Krusciov, Breznev e Gorbaciov
con la Perestrojka, l’implosione dell’URSS e la caduta del muro di Berlino, ci
interrogano e non interrogano, se non per le stucchevoli rievocazioni della
Rivoluzione, nel silenzio assordante su un centinaio di milioni di morti,
prezzo vero di una utopia negativa al potere nel segno del comunismo, dello
Stato ateo dichiarato, della delazione elevata a virtù, dei "confortevoli
lager", non meno duri di quelli della barbarie nazionalsocialista.
Aveva ragione Edmund Wilson nel suo libro Stazione Finlandia
a indicare in Lenin il culmine del pensiero radicale di 150 anni precedenti.
Un processo di idee e alle idee, allora. Che ha in Marx il
suo profeta, insieme al suo sostenitore materiale e collaboratore Engels. Ma
che ha radici già con l'avvento della Rivoluzione industriale e con l'Idealismo
di Hegel, il pensiero ateo e anticristiano di Furbach e, più in fondo, con
l'Utopia del mondo nuovo da Moro a Campanella (le cui statue furono poste davanti al Cremlino) è, se
vogliamo, con tutto il processo che caratterizza la nascita e la genesi della
gnosi spuria (Ennio Innocenti), l'idea, cioè, di recidere e misconoscere:
legami sacri e originari con il cosmo e con il Dio creatore, per l'uomo e la
società considerati come assoluti.
Fra i meriti delle mie Edizioni Thule, dal 1971, ascrivo
molte opere sul comunismo, su Solzenicyn e il dissenso, sugli effetti
dell'ateismo e sulla secolarizzazione in Occidente, sulla resa morale,
spirituale degli intellettuali, ma ancor di più ricordo un libretto di poche e
dense pagine pubblicato in traduzione italiana (di Paolo Castruccio), risalente
al 1978, del maestro del Giusnaturalismo Cattolico spagnolo, Francisco Elias de
Tejada (1918-1978), dal titolo Il mito del marxismo, che pubblicai nel 1979.
Testo illuminante che dimostra come, confrontandosi con il linguaggio dello
stesso Marx e malgrado le scatenate furie del pensatore di Treviri "contro
i seminatori di utopie e contro coloro che, ai suoi occhi, ancora erano avvolti
dalle nebbie cangianti dei miti", in realtà Marx costruì il più poderoso
fra i miti negativi della storia umana, scandagliandosi contro i Saint-Simon,
Owen, Fourier, quali creatori irrealistici, portatori di "un senso
puramente utopistico", sostenitori di idee antiscientifiche e
antiprogressiste, non in linea con il senso della storia: la costruzione,
ritenuta ineluttabile, dalla società ugualitaria socialista, contro cui si
scaglia nel Manifesto comunista del 1848.
Scrive, a proposito, testualmente Marx che quegli utopisti
prima ricordati, erano "alchimisti sociali", digiuni di elaborazioni
scientifiche, di scienza sociale, di storia dialetticamente materialista, di
non essere cioè "rappresentati degli interessi del proletariato, che nel
frattempo era sorto come prodotto storico. Alla pari dei razionalisti -
continua Marx - questi tre autori non si propongono di emancipare una
determinata classe, bensì tutta l'umanità. E, come costoro, essi pretendono di
instaurare il regno della ragione e della giustizia eterna". Una
fantastica utopia moralistica, che servirà per denigrare, ideologicamente, i
"sognatori" e i "riformisti".
Fu Proudhon invece ad appellare come realmente utopistico il
pensiero di Marx e il suo socialismo scientifico che egli fa partire dal
Platone della Repubblica fino alla Icarìa di Cabet. Scrive sul tema Proudhon:
"La prima cosa che mi mise in guardia contro l'utopia comunista, e di cui
i suoi stessi fautori non sospettano, è l'affermazione che la comunità sia una
delle categorie dell'economia politica, da questa pretesa scienza che il
socialismo ha la missione di combattere, e che io ho qualificato descrizione
delle pratiche dei proprietari. Come la proprietà è il monopolio elevato al
quadrato così la comunità è l'esaltazione dello Stato, la glorificazione della
polizia. E come lo Stato si stabilì, nella quinta epoca, quale reazione contro
il monopolio, così pure, nella fase in cui siamo pervenuti, il comunismo si
appresta a dare scacco matto alla proprietà. Il comunismo, quindi, riproduce,
benché in senso inverso, tutte le contraddizioni dell'economia politica. Il suo
segreto consiste nel sostituire all'individuo l'uomo collettivo in tutte le
funzioni sociali: produzione, scambio, consumo, educazione e famiglia. E poiché
questa nuova evoluzione non concepiva e né risolve nulla, porta fatalmente,
come quelle precedenti, all'iniquità e alla miseria. Così, dunque, il destino
del socialismo è completamente negativo; l'utopia comunista, uscita dal dato
economico dello Stato, è la controprova delle «routine» tipica dei proprietari.
Sotto questo punto di vista non difetta d'utilità, e giova alla scienza
sociale, come alla filologia giova l’opposizione del nulla al qualcosa. Il
socialismo è una logomachia”, una disputa, cioè, sull’uso e il valore delle
parole che si basa più sulla parola che sui fatti.
Marx si scaglia, inoltre, contro i filosofi che si
"sono limitati a interpretare il mondo in diverse maniere; si tratta ora -
dice - di cambiarlo".
Come notò de Tejada, Martin Buber, Schwonke e Jean Servier
ascrivono Marx tra gli utopisti, in quanto Marx "profetizzava
escatologicamente un paradiso, il paradiso socialista", quale esito di una
profezia, come effettivamente capì Popper quando scrisse che "la ricerca
economica di Marx è del tutto subordinata alla sua profezia storica".
Anche Nicolas Berdjaev scrisse che la profezia di Marx pretendeva di
realizzarsi nella storia, in uno spazio e in un tempo determinati e lo stesso
percorso fece Rodolfo Mondolfo quando acutamente ebbe a scrivere che
"l'emotività positiva riferita al marxismo consiste, nella sua forma più
esaltante, nella mitificazione e nell’utopismo. Il marxismo è in tal modo
trasformato in una dottrina di salvazione, non meno escatologica per essere intramondana,
in un messianismo, in un messaggio profetico che, attraverso un'apocalisse
rivoluzionaria, promette la redenzione liberatrice".
La Novità di Marx, aggiunge il de Tejada, è "quella che
trasforma Marx in un eccezionale utopista, è il fatto che la sua utopia non è
fuori dal mondo, bensì nel mondo; che non è una fantasia, bensì una certezza;
che è realtà quasi tangibile, senza detrimenti di illusione o di sogno. Che è,
insomma, una utopia, con un «topos» chiaro: l'intera terra; che è un’ucronìa
(mancanza o assenza di tempo) con un tempo indubitabile: al termine del
processo dialettico delle lotte di classe e forse dopo l'apocalisse della
rivoluzione. Utopia ed ucronìa evidenti, perché Marx giunge ad esse
prescindendo da alate fantasie, e adoperando il metodo scientifico che assicura
il suo materialismo storico. La spiegazione consiste nella novità con cui Marx
mette in relazione il razionale col reale, l'idea con la «praxis»", in
quanto Marx colloca il pensiero dietro al fatto. Non altro è il significato del
materialismo storico rispetto al suo padre e predecessore: l’Idealismo
hegeliano. La filosofia è posteriore alla «praxis». Marx rovescia i presupposti
dei precedenti movimenti sociali e pone come fondamenti gli schemi
dell'economia e nella Deutsche Ideologie, e scriverà infatti: "Il
comunismo si distingue da tutti i movimenti finora esistenti in ciò, che esso
capovolge il fondamento di tutti i finora esistenti rapporti di produzione e di
scambio, e tratta tutti i presupposti naturali per la prima volta coscientemente
quali prodotti dell'uomo finora esistente, lo spoglia della sua dignità
naturale, e lo sottomette al potere degli individui unificati. La sua
impostazione è perciò essenzialmente economica".
Marx è un rivoluzionario nelle idee (nella vita fu un
borghese, sostanzialmente), che vede il mutamento totale, violento, radicale
della realtà da abbattere con la rivolta proletaria, a costo di lastricare di
morti il suo cammino. E la rivoluzione, infatti, "esige perentoriamente
l'utopia", che, ancora afferma de Tejada, viene concepita "come
qualcosa di sovraumano, perché nel suo fondo più scuro è il rigetto dell'ordine
divino che dispose la vita terrena in valle di lagrime, vi è l'aspirazione
delirante di creare urgentemente un paradiso quaggiù, affinché l'uomo possa
conquistare la felicità per se stesso, senza alcuna necessità di Dio (…) La
rivoluzione è la secolarizzazione della felicità, e la sostituzione della
rivelazione divina con un mito confezionato dalla ragione umana".
Per Marx il "peccato originale" è il capitalismo
che è da abbattere senza se e senza ma: "I comunisti sdegnano di occultare
le loro idee e propositi. Essi dichiarano francamente che i loro fini non
possono essere raggiunti senza la violenta distruzione dell'intero ordine
sociale, quale è esistito finora. Non a torto le classi dominanti tremano
dinanzi alla minaccia di una rivoluzione comunista. In questa i proletari non
hanno da perdere che le proprie catene. Essi hanno un mondo da guadagnare"
(Die Frühschrftene, 560).
Fu questa la molla delle rivoluzioni innescate già nel XIX
secolo e perfettamente realizzate nel XX in varie parti del mondo, sotto il
pensiero egemone di Marx che, sulla sua scia, profetizzavano il paradiso
terreno dell'umanità, una "escatologia paradisiaca della storia", una
fede laicissima e atea, che scatenò le élites rivoluzionarie, contagiando masse
fino alla rivoluzione finale del 1917, intesa come redenzione, sogno e sole
dell'avvenire. Una creazione, disse Roger Garaudy, continua dell'uomo da parte
dell'uomo, che affonda negli immortali principii del 1789. Nell'esito politico
della Rivoluzione russa "l’intero leninismo altro non ha fatto che
soppiantare il concetto sociologico di classe col concetto politico di partito,
visione certo estremamente efficace in campo pragmatico" (de Tejada).
La sostituzione dell'individuo all'uomo collettivo in tutte
le funzioni sociali, come voleva Marx, si aggiunse al volere imperioso del
Partito Comunista al potere in URSS, con il braccio armato di polizia ed
esercito che, in nome della dittatura del proletariato, imposero la dittatura
delle oligarchie del Partito, elevando il terrore a sistema di governo che
produsse cento milioni di morti, gulag, lo sterminio dei Cosacchi, le fosse di
Katyn, veri e propri "crimini contro l'umanità", di cui però si
ricordano in pochi, non essendovi stato alcun nuovo "tribunale di
Norimberga". Del resto, lo sterminio di nobili, proprietari, dissidenti e
borghesi indicati come classe da soppiantare era stato già autorevolmente
indicato da Marx ed è stato attuato nei paradisi comunisti di Cambogia, Cina,
Vietnam ecc.
La "felicità per tutti" fu la tragedia dello
sterminio, il carcere, i ritmi forzati della pianificazione economica, con la
complicità morale di parti politiche cospicue dell'Occidente, che ancora oggi
non ricorda i Bukowski, Zinoviev, Pluse, Sacharov, Sinjavskij, Daniel e
soprattutto il lucidissimo Aleksandr Solzenicyn (a cui Piero Vassallo dedicò,
con Thule, un saggio esemplare nel 1974), che era nato nel 1918 e che si
spense, dopo il Nobel, nel 2008. Solzenicyn scrisse La ruota rossa, dieci
volumi di settemila pagine, sconosciute praticamente in Italia, tranne Lenin a
Zurigo e Agosto 1914, che come ha testimoniato il figlio Stefan, sono stati la
missione di tutta una vita dell’eroico dissidente e autore del fondamentale Una
giornata di Ivan Deninovic, ora riedito da Einaudi e di Arcipelago Gulag
(Meridiani Mondadori) che si uniscono a un altro testo finale dello scrittore
Due secoli insieme, edito a Napoli da Controcorrente.
Scrisse A. Nemzer che "la più grande sofferenza di
Solzenicyn era la vittoria della Rivoluzione sulla Russia", da cui derivò
poi la lotta culturale e linguistica della Russia, tornata ortodossa, contro la
Rivoluzione. Lotta all’infuocata lingua della Rivoluzione, che aveva sovvertito
il linguaggio e le categorie stesse della logica, con il suo lessico di odio
che l’impoverì notevolmente e tentò con ogni mezzo la standardizzazione con un
continuo ricorso alla propaganda, al “realismo” dell’arte, al psichiatrico
“linguaggio del cervello”.
Per tali ragioni nel 1990 Solzenicyn pubblicò un Dizionario
russo dell'arricchimento linguistico, in cui documentò l'abbandono di uno
straordinario lessico per un linguaggio burocratico imposto dal partito
comunista.
Nel 1974 accogliendo un Premio, Solzenicyn affermò:
"Abbiamo già imparato che l'abbattimento violento degli Stati, i colpi di
mano rivoluzionari non aprono la via al radioso avvenire ma a una rovina ancora
più grave, un arbitrio e una violenza peggiori di prima. E se pure è destino
che nel nostro futuro vi siano rivoluzioni salvifiche, devono essere
rivoluzioni morali".
L'egemonia culturale, teorizzata in salsa italiana ed
europea da Gramsci, si è realizzata pienamente nella rimozione collettiva dei
crimini del comunismo, nel “romanticismo” sessantottesco, nelle rievocazioni,
mostre come quella della Fondazione Feltrinelli, che non dedica una parola ai
dissidenti e ai Gulag, anche nel testo 1917-2017. Una storia europea chiamata
rivoluzione.
È come se si parlasse, oggi, di archeologia, di guerre
puniche, riguardo la Rivoluzione d'ottobre; le "burocrazie amministrative
del comunismo italiano" scrive Costanzo Preve, filosofo marxiano, si sono
riciclate come "personale politico di gestione dell'attuale
americanizzazione culturale", nel mondo unipolare.
È stato Robert Conquest che negli anni ‘70 si cominciò a
documentare il costo umano dei crimini del comunismo, fino a giungere al famoso
Libro nero, per arrivare all'attuale stagnazione del processo veritativo sul
comunismo, come prassi politica e ideologia da indagare.
Una "logica" che è pure iscritta nell'ambito delle
dinamiche del turbocapitalismo e di cui, in alcune parti, Marx fu pure
osservatore acuto, ma, tuttavia, profeta a tutto tondo della tragedia che
unisce il comunismo al nazismo alla inumanizzante globalizzazione, fatta di
consumatori schiavi del politicamente corretto, della pubblicità, delle
illusioni che sono poste come più importanti della realtà.
Leonid Andrew nel 1919 scrisse che bisognava essere dei
selvaggi per rimanere impassibili davanti alla condotta disumana dei
bolscevichi, che giunse - come scrisse Stefan Zweig - fino alla dimensione
mistica del culto di Lenin che con Stalin è il vero, rivoluzionario esecutore
del Marx-pensiero, non un degenerato interprete.
Secondo lo storico inglese Peter Burke ogni tentativo di
rovesciare un ordine ingiusto finisce per creare uno ugualmente ingiusto. È ciò
che avvenne con la strategia attuata della menzogna elevata a sistema, posta in
atto dai bolscevichi che, per imporsi nel 1922 sui Bianchi - che non avevano
però veri capi né una solida idea alternativa - sudarono non poco, e come poco
si sa, non volendolo documentare. Lenin effettivamente riuscì, come diceva, a
subordinare la morale alla lotta di classe per approdare al peggior statalismo
centralizzato che è, in sostanza, come disse Vassilij Grossman, nient'altro che
servaggio.
Ciò che inizio il 9 gennaio 1905 e si concluse nel 1989, è
in realtà una parentesi che vede comunistizzato nell'ateismo, nel laicismo e
nell’indifferentismo di massa, il sogno propagandato, con anestesie mentali, di
una umanità livellata, ora in mano ai potenti della finanza, al posto dei
potenti comunisti del partito unico.
Una dinamica totalitaria che continua, una eterogenesi dei
fini, direbbe Augusto Del Noce, che non si è fermata alla fine della vecchia
"Grande Russia" (che non era affatto una potenza, all'epoca,
arretrata come ha dimostrato Boris Mertinov), e che ancora mira con la
rivoluzione antropologica in atto, a costruire un ipotetico e irreale paradiso
in terra, l’uomo nuovo, come allora i bolscevichi e come lavorano oggi i
progressisti illuminati che, esaltando i "mitici" diritti – presunti
- individuali, in realtà eliminano la persona e distruggono ciò che resta della
civiltà.
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